Amélie-Mathilde-Alice nel paese delle Meraviglie (e degli Orrori)
Piove. Un'acqua sporca e fredda scroscia da un cielo lividamente cadaverico sulle trincee fangose della Somme, sgronda incessante sull'odiosa imbecillità e l'insensatezza crudele della guerra - di tutte le guerre - si abbatte sui soldati infreddoliti abbrutiti affamati invigliacchiti, raccolti nelle trincee come in una amniosi di putrefazione. Un soldato si accende la sigaretta alla fiamma di una lanterna che illumina i brandelli della statua di un Cristo in croce, anche lui oscenamente dilaniato dalle granate.
Cinque soldati che nel tentativo di sottrarsi alla guerra si sono automutilati si avviano all'esecuzione. Li accompagna la musica di Angelo Badalamenti che si distende sulla fanghiglia delle trincee come un requiem privo di misericordia: devono essere abbandonati nella terra di nessuno, ai colpi dei cecchini nemici, per scontare in questo modo infame e infamante la geniale ed esemplare punizione che lo stato maggiore francese ha inventato per i vili e i disertori.
Il destino dei cinque è segnato. Alla fine della guerra risulterà che tutti sono morti. Tra loro c'è anche il soldato Manech che ha lasciato nel suo paesino bretone la fidanzata Mathilde: primo e unico amore di tutta la sua vita.
Ed è proprio a questo punto, in questo clima di orrore, di strazio e di macello disumano, che comincia davvero il film.
Un labile indizio convince Mathilde a iniziare, qualche anno dopo la fine della guerra, una sua indagine personale, ostinata e caparbia, alla ricerca del fidanzato perduto, aggrappandosi a un esilissimo filo di speranza che continuamente si spezza e si riannoda.
"Una lunga domenica di passioni", nonostante abbia la guerra sempre in sottofondo e nonostante un suo ben espresso antimilitarismo, non è però un film di guerra (alla Kubrick o alla Spielberg o alla Rosi, per intenderci). E' piuttosto un lungo viaggio del sentimento, della passione, della ragione e della fantasia nel labirinto dei destini incrociati di alcuni uomini e di alcune donne, il cui destino forse non si è compiuto nel modo in cui apparentemente sembra essere stato scritto e consumato.
Jeunet racconta così la storia di Mathilde, della sua infanzia segnata dalla poliomilelite, del suo aprirsi a un amore che ha le radici nei primi sommovimenti del cuore e nelle prime vibrazioni dei sensi, che cresce e sboccia tra le rocce della costa bretone, tra i fari solitari, i tramonti sull'Oceano e i voli degli albatros. E racconta anche tante altre storie parallele o incrociate con quella di Mathilde che dilatano il film a una dimensione corale. Non mancano l'ironia, le battute divertenti e la leggerezza di tocco, le gag alla Tati, i paesaggi ricostruiti come cartoline d'epoca: insomma quello stile originale che Jeunet aveva già fatto apprezzare da Delicatessen a Amélie Poulain.
Un bellissimo film: teso, spettacolare, poetico, crudo e romantico. Due ore e un quarto per un magnifica storia nazional-popolar-romanzesca che volano leggere nelle magiche luci in cui il film è avvolto.
Jean-pierre Jeunet è riuscito, grazie anche alla straordinaria sceneggiatura elaborata dal bel romanzo di Sébastien Japrisot, a realizzare un exploit eccezionale, per stile ed equilibrio, recuperando tutto il fascino del feuilleton (nel senso più nobile) ma senza mai scivolare nel mélo, a usare i flash-back senza mai essere scontato o stucchevole, dosando in maniera elegantissima tutti gli ingredienti del dramma e della commedia, del film inchiesta e del polar. Molta parte del merito va anche alla compagine di attori che sono riusciti a dar vita a una strepitosa galleria di personaggi, tra i quali spicca naturalmente quello di Mathilde ancor più che recitata "vissuta" da una Audrey Tautou indimenticabile per fascino, grazia e espressività. Un altro non piccolo merito del film è quello di essere, al di là del budget elargito generosamente dagli Stati Uniti un film di cultura squisitamente franco-europea nella tradizione del realismo, del naturalismo e del surrealismo francese alla Prévert.
Piadina ha osservato che il finale del film è forse un po' scontato. Può anche apparire così. Diventa un po' meno scontato se si apprezza il fatto che Jeunet affida la chiusura del proprio film a una citazione tratta da Lewis Carrol. Un po' come se il regista si concedesse una strizzatina d'occhio alla ricerca della complicità dello spettatore. Come se dicesse: Amélie è cresciuta. Non è più la ragazzina di un tempo. Finalmente Amélie è diventata Alice, e come Alice ha compiuto il "suo" viaggio in quel paese delle meraviglie che il cinema ogni tanto riesce a essere.
Regia
Sceneggiatura
Interpreti
Scenografia
Complessivamente:
Ancora una volta non posso astenermi dal segnalare al pubblico ludibrio il somaro che ha tradotto il bel titolo originale "Un long dimanche de fiançailles" con lo stupidissimo e fuorviante "Una lunga domenica di passioni". Bestia!