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Osservazioni sulla fiction "Il Capo dei Capi" di Enzo Guidotto

Ultimo Aggiornamento: 06/03/2008 19:53
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«Il “Capo dei capi” di Cologno Monzese»

La mancata risposta ai tanti perché da parte di quanti, in un modo o nell’altro, hanno contribuito a realizzare la fiction, fa venire in mente la famosa frase di Giulio Andreotti: «A pensar male degli altri si fa peccato, ma quasi sempre si indovina». Il principio – che, ovviamente, vale anche nei suoi confronti – nel nostro caso sembra trovare una specie di conferma in un articolo apparso su “Libero” del 27 novembre a firma di Alessandra Manzani: «Gioisce sì, non nasconde la propria soddisfazione, ma senza strombazzare i risultati con dichiarazioni pompose e comunicati stampa festaioli il “Capo dei capi” di Cologno Monzese». Chi è questo personaggio al quale la giornalista osa affibbiare il “titolo” riservato a “Zù Totò?”? Nessun mistero: «il vicepresidente di Mediaset, dottor Piersilvio Berlusconi» del fu presidente del Consiglio cavalier Silvio, a sua volta capo di Forza Italia.
«In televisione la qualità è l’attenzione ai dettagli, la cura del prodotto, la capacità di innovare programmi già affermati» ha dichiarato Piersilvio. «Non esiste la qualità assoluta: ogni cosa può piacere o non piacere, dipende dai gusti personali». Di conseguenza, secondo lui, non è un buongustaio chi in tema di mafia non apprezza le fiction con gravi errori ed omissioni. «In questa stagione – ha aggiunto - Mediaset dimostra che questa capacità fa parte del suo Dna».
Una precisazione, quest’ultima, che fa capire bene la principale ragione di certe scelte. “Buon sangue non mente” , dunque: quel che più importa alla “Berlusconi dinasty” non è il culto della verità ma l’ incessante ricerca – come hanno dimostrato inchieste e processi – del guadagno a tutti i costi accompagnata dalla pretesa di non rendere conto a nessuno. Non a caso il 29 novembre, lo stesso giorno in cui è stata trasmessa l’ultima puntata della serie, sul sito di TGCOM si legge la seguente notizia: «Accordo in casa Mediaset per una joint-venture in cui confluiranno Medusa Film e Taodue - fondata da Pietro Valsecchi e Camilla Nesbitt - che ha iniziato a produrre fiction alla fine degli anni '90 e conta tra le sue produzioni "La uno bianca", "Ultimo", "Distretto di polizia", "Paolo Borsellino", "Karol, un uomo diventato Papa", "Nassirya", "Maria Montessori", nonchè il discussimo (sic!, nda) "Il capo dei capi". Il binomio Medusa Film e Taodue garantirà a Mediaset una vasta copertura sia per quanto riguarda l'area cinematografica che quella della fiction televisiva. Medusa Film, infatti, è ai vertici della produzione e della distribuzione di film italiani ed internazionali, nella gestione di sale cinematografiche e nell'home entertainment».
“Business is business”, dunque: il principio dominante della filosofia del “capo dei capi”. «In fondo – ha detto una volta Mario Puzo, che di certe cose se ne intende – la mafia è un business come un altro: con la differenza che ogni tanto spara».

Il poliziotto immaginario e i “pivelli”

Fin qui le possibili motivazioni delle gravi omissioni. E quelle riguardanti la falsificazione di fatti che – in realtà o all’apparenza – non hanno avuto a che fare con la politica? Qualche esempio rende chiara l’idea.
Uno è quello del rapimento del figlio del poliziotto Biagio Schirò per impedire che il Tribunale per le misure di prevenzione assegnasse a Ninetta Bagarella – che nella fiction dà l’input che porta al sequestro - il soggiorno obbligato in una località lontana dalla Sicilia. L’interessata si è già rivolta agli avvocati. Non avrebbe potuto fare la stessa cosa se avessimo visto la raccolta di firme per evitare quel provvedimento promossa da monsignor Emanuele Catarinicchia, all’epoca sacerdote, diventato poi, malgrado tutto, vescovo, prima di Cefalù e poi di Mazara del Vallo.
Non meno inopportuno il ruolo conferito a Daniele Liotti del siciliano che, rendendosi conto degli errori commessi da ragazzo, cambia strada, lotta in prima linea contro la mafia al servizio dello Stato e, «pur avendo subìto ingiustizie – come ha rilevato Claudio Gioè, il bravissimo interprete di Totò Riina - ha scelto di perseguire il bene». Non si può negare che sia stata questa la percezione dei telespettatori. Ma il poliziotto Biagio Schirò, mai esistito, è stato presentato come memoria storica unica della saga dei Corleonesi e, in quanto tale, protagonista dell’azione di contrasto del male ed elemento ispiratore e trainante – se si fa eccezione del generale-prefetto Carlo Albero dalla Chiesa che dimostra di sapere il fatto suo - di investigatori e magistrati, da Boris Giuliano a Giuseppe Montana e Ninni Cassarà, da Cesare Terranova e Gaetano Costa a Rocco Chinnici, e Borsellino e Falcone, fatti passare tutti quasi per pivelli

Il vero Boris Giuliano

Ma la realtà è stata ben diversa. «Mio marito non aveva bisogno, come appare nel lavoro televisivo, di un inesistente Schirò che lo spronasse a combattere la mafia» ha dichiarato Ines Maria Leotta, vedova del commissario Boris Giuliano ottenendo il plauso dei parenti di tanti altri servitori dello Stato assassinati proprio perché le loro indagini avevano imboccato le piste giuste.
«Pur apprezzando il risalto dato alla figura di mio marito» - ha aggiunto – non posso fare a meno di rilevare che Boris era «molto diverso sin dai caratteri esteriori. Emerge dalla fiction un personaggio che segue lo stereotipo del siciliano: scuro, con folti baffi neri, che parla in dialetto e che usa il turpiloquio, un uomo dal temperamento passivo. Mio marito non era per nulla così. Non era un uomo di mezza età, era un uomo giovane, non parlava in dialetto stretto: non ci sarebbe stato nulla di male, ma semplicemente non era così. Inoltre non usava abitualmente il turpiloquio e non fumava. Ben altro, se si fosse voluto rendere giustizia alla sua figura, poteva essere raccontato nella fiction: si poteva fare riferimento all'isolamento in cui fu lasciato, o ai rapporti che presentava e che restavano lettera morta nei cassetti della Procura».
«Anche se si tratta di una fiction e pertanto non necessariamente fedele alla realtà – ha concluso la signora Giuliano - penso che nel trattare un argomento così delicato andrebbe fatta una scelta : o utilizzare nomi e situazioni di pura fantasia, oppure, se si decidesse di riferirsi a personaggi realmente esistiti usando il loro nome - e che, come in questo caso, hanno perduto la vita per lo Stato - ci si dovrebbe attenere alla realtà dei fatti sottoponendo la sceneggiatura ai familiari».

Il colmo dei colmi: la figura di Angelo Mangano

In questo senso il colmo dei colmi dell’immaginazione che sfocia nella spudorata falsificazione di persone e fatti è stato raggiunto con la figura del commissario di pubblica sicurezza Angelo Mangano - quello con baffi e pizzetto, sempre in stretto contatto con Biagio Schirò - paradossalmente “accreditato” come l’autore della duplice cattura di Luciano Liggio, il capo degli altri capi: Totò Riina e Bernardo Provenzano. «Torno in tv per vestire i panni del commissario Angelo Mangano che arrestò la “primula rossa” Liggio» aveva infatti dichiarato in primavera l’attore Massimo Venturiello, dopo aver letto il copione. E se di questo si è convinto l’interprete del personaggio figuriamoci quale libertà di pensiero e di giudizio abbiano potuto avere i telespettatori che hanno dimenticato o non hanno mai conosciuto – o mai conosciuto correttamente - quelle vicende. Perché? Semplice: il commissario Angelo Mangano, non ebbe alcun merito nelle due operazioni: l’unico Liggio che riuscì ad arrestare non fu Luciano ma un suo fratello, menomato psichico.

Camilleri: è un problema di fonti

Quale il “peccato originale” che ha portato alla gravissima gaffe, se di semplice gaffe si tratta? Quello della scelta delle fonti da utilizzare. E in questo campo Andrea Camilleri, criticato perché non si è allineato con i conformisti, ha ragione da vendere. «Io – ha scritto in un articolo su “La Stampa” - personalmente ritengo che l’unica letteratura che tratti di mafia debba essere quella dei verbali di polizia e carabinieri e dei dispositivi di sentenze della magistratura. A parte i saggi degli studiosi, naturalmente». Ma anche – è doveroso aggiungere - libri scritti da giornalisti scupolosi che, oltre a quei documenti, hanno utilizzato i risultati dell’accurata inchiesta svolta al riguardo dalla Commissione parlamentare antimafia, dai quali le due operazioni emergono con estrema chiarezza e dovizia di particolari: il primo arresto di Luciano Liggio, avvenuto nel ’64 a Corleone, fu eseguito dai carabinieri agli ordini del tenente colonnello Ignazio Milillo, divenuto poi generale; il secondo, a Milano nel ’74, dalla Guardia di Finanza al comando del tenente colonnello Giovanni Vissicchio. Basta pensare, ma solo per fare qualche esempio, a “Mafia” di Gàbor Gellért (Rubbettino, 1978), a “Nel segno della mafia” di Marco Nese (Rizzoli, 1975), o al più recente “O mia bedda madonnina” di Goffredo Buccini e Peter Gomez (Rizzoli, 1993). «La figura di Angelo Mangano – hanno rilevato molto opportunamente questi ultimi a pagina 90 – è molto discussa. La Commissione parlamentare antimafia nelle sue relazioni, sia di maggioranza che di minoranza, è estremamente critica nei suoi confronti e lo accusa di “completo fallimento in tutte le operazioni” condotte».
Quali, invece, le fonti di Stefano Bises, Domenico Starnone, e Claudio Fava, autori della sceneggiatura? Il libro dall’omonimo titolo (Mondadori,1993) di Attilio Bolzoni e Giuseppe D’Avanzo, giornalisti de “La Repubblica” e, presumibilmente, quello di Pippo Fava, “Da Giuliano a Dalla Chiesa” pubblicato nel 1983 dalla cooperativa “Siciliani Editori” e ristampato l’anno dopo da “Editori Riuniti”. Nel primo, a pagina 66, c’è scritto infatti che Liggio fu beccato quando nella stanza nella quale si nascondeva «fece irruzione il commissario Angelo Mangano»; nel secondo, a pagina 68, si legge che «dopo tre anni spesi con implacabile pazienza a seguirne le mosse, il commissario Mangano riuscì ad arrestare Luciano Liggio».
Ma questa è la vecchia favola che lo stesso Mangano andò raccontando a destra e a manca, riportata da chi non ha voluto o non è stato in grado o non ha avuto il tempo di verificarne la veridicità.

1964: Milillo, non Mangano, cattura Liggio

In verità Mangano giunse a Corleone nel novembre del ‘63, solo dopo che nel Palermitano Milillo aveva fatto terra bruciata attorno al superlatitante, sfuggito per un soffio alla cattura appena due mesi prima. Liggio si sente braccato ma, invece di allontanarsi il più possibile dalla zona per scampare all’incombente “pericolo” di finire nella rete tesa dai carabinieri, si trasferisce - guarda caso - proprio a Corleone, in un’abitazione poco distante dal Commissariato di Pubblica Sicurezza dove alloggiava il “superdetective” Mangano.
Sulla vicenda esiste anche una breve ma lucidissima testimonianza di Pio La Torre che taglia la testa al toro. In occasione dell’arresto di Liggio – scrisse in un articolo pubblicato su “Quaderni Siciliani”, n. 5-6 del 1974, quando cioè era membro della Commissione parlamentare antimafia - «emerge il ruolo del dottor Angelo Mangano, allora Commissario di PS spedito a Corleone dal capo della Polizia Angelo Vicari il 15 novembre 1963 per “arrestare” Liggio». E qui, le virgolette che fiancheggiano il verbo usato all’infinito esprimono, per dirla con Ungaretti, un’ironia che “illumina d’immenso”. «Sta di fatto – precisò La Torre - che Liggio, che prima aveva vagato da Partinico a Palermo, soggiornando anche in varie cliniche sotto falso nome, decide di abitare stabilmente a Corleone e qui viene arrestato soltanto nel maggio 1964 dai Carabinieri agli ordini dell’allora colonnello Milillo il quale solo all’ultimo momento avverte il commissario Mangano. Questi, però, tenta di attribuirsi il merito dell’operazione, provocando tra l’altro una querela del colonnello Milillo, che si è conclusa nei giorni scorsi, dinanzi al Tribunale di Milano. Il generale Milillo ha ritirato la querela dopo che il dr. Mangano, ponendo fine alle sue fanfaronate, ha dato atto che l’operazione che condusse all’arresto di Liggio fu promossa dai carabinieri agli ordini di Milillo».
Quando in Commissione antimafia Pio La Torre parlava di queste cose – mi confidò una volta Giuseppe Niccolai, altro membro della stessa – citava la cronaca de “L’Unità” dell’epoca. «Luciano Liggio è stato finalmente arrestato» aveva scritto Giorgio Frasca Polara sul quotidiano il 15 maggio 1964. «Il feroce bandito che per 19 anni ha seminato impunemente morte e terrore nel Palermitano è stato scovato in un’abitazione al centro di Corleone, dove aveva trovato compiacente ospitalità. Il clamore che la cattura di Liggio susciterà è paragonabile soltanto a quello che caratterizzò la fase finale delle operazioni contro la banda Giuliano. L’operazione è scattata alle 21,30; la casa nella quale Liggio si nascondeva è stata circondata da pattuglie di carabinieri armati sino ai denti. Alla porta ha bussato il tenente colonnello Milillo; alle sue spalle c’erano il capitano Ricci e il capitano Carlino, comandante della Tenenza di Corleone. Qualche istante dopo una donna ha aperto la porta. Quando ha visto i carabinieri è sbiancata in viso, ma prima che potesse riprendersi l’irruzione nella casa era avvenuta. In una stanza semibuia, disteso sul letto e ingrossato dal busto di gesso che lo difende dal morbo di Pott, c’era Luciano Liggio».

Le fasi della cattura

Quale, dunque, il vero ruolo di Angelo Mangano? Le fasi dettagliate del blitz e le prime battute tra Milillo e Liggio, raccolte dai testimoni oculari, le ricostruì anche Guido Gerosa per il settimanale “Epoca” : «Verso le 21,30 del 14 maggio 1964 l’abitazione è completamente circondata. Milillo ordina al riluttante Mangano di perquisire la cucina mentre lui irrompe al piano di sopra». Liggio è disteso su un lettino addossato al muro. Milillo non ha armi in pugno e, non potendo escludere che Liggio possa reagire sparando, cerca la pistola, ma il boss gli dice subito che è nel cassetto del comodino aggiungendo: «Colonnello, non era il caso che si preoccupasse: la pistola sempre a Lei l’avrei ceduta perché mi aveva combattuto con onore, ed era giusto che con onore vincesse».
«In quella – precisò Gerosa - entra Mangano. Sbuffava per essere rimasto in cucina e quando ha visto che tutti i carabinieri si stavano precipitando con slancio quasi festoso verso la camera al primo piano, è entrato anche lui. Liggio, che sta finendo la sua frase sull’onore, vedendo Mangano ha un guizzo feroce nello sguardo e gli sibila in viso “ … mentre quel buffone, pagliaccio era solamente capace di poter catturare deficienti come mio fratello”. E conclude con una frase sibillina: “E gli è finita la missione in Sicilia!”».
Pallido in volto, Mangano taglia la corda e si ferma sul pianerottolo situato tra la porta d’ingresso e la scala esterna. Giungono i militari con Liggio portato a spalla. Con una mossa fulminea, il commissario – scrive Marco Nese nel suo libro - «toglie la mano sinistra di Liggio dalla spalla di un maresciallo e la poggia sulla sua». Improvvisamente, appare un fotografo. «Ed ecco il flash lampeggiare sul gigante barbuto che sorregge il criminale d’eccezione. Diffusa attraverso l’agenzia Ansa, tra poche ore l’immagine campeggerà su tutti i giornali innestando la leggenda del titanico 007, catturatore di Liggio» alla quale hanno continuato ad abboccare in tanti anche se lo stesso “capo dei capi”, subito dopo essere finito in cella ed in altre occasioni non esitò a raccontare senza mezzi termini la verità. Interessanti, al riguardo, le risposte alle domande dei giornalisti dei quotidiani “Il Giornale d’Italia” e “L’Avvenire” , publicate il 21 maggio 1976: «Da chi fu arrestato?». «Da Milillo. A Mangano, anziché fargli fare il funzionario di polizia dovevano portarlo in un ospedale ambulante» . «E’ vero che Mangano spostò un carabiniere per farsi fotografare al suo fianco?». «Si». «Quindi la fotografia non dimostra niente?». «Dimostra che voleva farsi fotografare» .
D’altra parte, gli accertamenti avevavo già portato alla conclusione che a chiamare il paparazzo di giornata era stato proprio il diretto interessato: il commissario Angelo Mangano.
«Io – spiegherà in seguito Milillo alla Commissione antimafia – quando vidi che il fotografo era già pronto mi ritirai» perché «avevamo disposizioni di evitare qualsiasi esibizionismo, di evitare fotografie, di evitare qualsiasi scalpore sulla stampa». E poi – preciserà in seguito - «mostrarsi in una foto mentre si aiutava Liggio a scendere sarebbe stato indecoroso per un ufficiale dei carabinieri». Mangano, invece, «si mise in posa accanto a Liggio, a colui, cioè, che poco tempo prima l’aveva offeso».

L’altro imbroglio di Angelo Mangano

Nel maggio del 1964, l’equivoco fu però provocato anche dal fatto che, Mangano, attuata l’operazione che servì ad ingannare l’opinione pubblica, ebbe il coraggio di perseverare nell’imbroglio presentando alla Questura di Palermo una “relazione di servizio” con la quale si attribuì l’esclusivo merito dell’operazione. La Questura – in buona o in malafede - preparò quindi un rapporto contenente gli elogi per il commissario e lo consegnò al Prefetto che, prendendolo per veritiero, lo firmò e lo inoltrò al Ministero dell’Interno. Ma, una volta chiariti i fatti, fu lo stesso ministro dell’Interno Paolo Emilio Taviani a consegnare a Milillo la taglia per l’operazione, mentre il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat gli conferì l’onorificenza di Cavaliere della Repubblica, uno dei tanti attestati di benemerenza ricevuti sia prima che dopo la vicenda e persino in epoca successiva al pensionamento.
Ma perché subito dopo l’arresto Liggio aveva chiamato Mangano «buffone, pagliaccio» e gli aveva rivolto altri epiteti offensivi? Sulla base dell’audizione di Milillo - del quale vennero riconosciuti sempre e da tutti il comportamento ineccepibile e l’assoluta credibilità - la Commissione antimafia rilevò che il boss lo aveva ingiuriato «non solo perché il funzionario aveva arrestato in paese un suo fratello deficiente, “ma un po’ perché sembrava deluso da certi atteggiamenti che si attendeva dal Mangano”». E fu da questa consapevolezza, suffragata da ulteriori ambiguità manifestate da Angelo Mangano, che nell’organismo parlamentare e nella pubblicistica dell’epoca si fece strada l’impressione che commissario fosse stato mandato in Sicilia non per arrestare Liggio ma, in qualche modo, per proteggerlo in quanto notoriamente potente portavoti della Democrazia Cristiana, in combutta con Vito Ciancimino. E Ciancimino, si sa, aveva referenti a Roma - in Parlamento e al Governo – con i quali curava i rapporti direttamente o tramite Salvo Lima e Giovanni Gioia, nomi che, guarda caso, compaiono anche in occasione del secondo arresto della “primula rossa”.

Le conclusioni dell’Antimafia

«Certo è, comunque e in ogni caso – furono nel ‘76 le conclusioni della Commissione antimafia della sesta legislatuta della quale fece parte anche Cesare Terranova – che Mangano non ha agito si sua iniziativa, ma ha obbedito a ordini ricevuti»: si mosse «sempre operando agli ordini diretti del Capo della Polizia Vicari che continuò ad affidargli incarichi nella lotta contro la mafia nonostante gli insuccessi registrati».
Più che legittima, dunque, davanti alla falsificazione dei fatti della fiction, la reazione di Giangranco Milillo, generale dei Carabinieri in congedo, figlio del generale Ignazio: nella lettera che si riporta integralmente, indirizzata al produttore de “Il capo dei capi” Pietro Valsecchi, reclama il «trionfo della verità» e fa presente che «i soldi e il successo da una fiction si ottengono anche dicendo la verità».
Una verità, forse scomoda in certi ambienti, che di tanto in tanto viene messa in discussione attraverso “rivelazioni” che, a distanza di più di quarant’anni, fanno pensare a tentativi – tanto subdoli quanto inutili - di “depistaggio” a scoppio ritardato in funzione di chissà quale “giusta causa”. Tanto più che sono somministrati col contagocce da soggetti che non hanno il coraggio di venire allo scoperto con nome e cognome. Che siano degli “incappucciati” capaci di agire soltanto dietro le quinte? Chi lo sa! Oppure si tratta di una manovra analoga a quella diretta alla “rivalutazione” – anche da parte dell’ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi - di Bruno Contrada anche dopo il verdetto della Cassasione le cui motivazioni sono state espresse nei giorni scorsi?

1974: Vissicchio, non Mangano, cattura Liggio

E non è detto che le polemiche finiscano qua, perché anche la narrazione del secondo arresto di Luciano Liggio, avvenuto dieci anni dopo a Milano, è stata falsificata di sana pianta. Nella fiction, Mangano piomba in un albergo e lo trova in compagnia di una bella bionda. In realtà la cattuta del superboss avvenne in un appartamento di Via Ripamonti, condiviso con la compagna ed il figlio.
All’epoca, Mangano operava in tutt’altri lidi: a mettergli le manette fu il colonnello della Guardia di Finanza Giovanni Vissicchio, arrivato al dunque – a quanto pare a seguito di una soffiata alla quale non sarebbero stati estranei boss avversari – nel corso di indagini sui sequestri di persona attuati al Nord da “uomini del disonore” pilotati dai Corleonesi.
Qualche tempo dopo, l’ufficiale ebbe un incontro a Roma con il comandante generale del Corpo, Raffaele Giudice, che nel 1981 risulterà iscritto alla P2. In seguito, Vissicchio, nel corso di un processo, ebbe modo di riferire di quel colloquio nel corso di un processo: «”Lei, mi disse, è il colonnello che ha arrestato Liggio? Ebbene, pensi a fare il finanziere e non il carabiniere”. Questa frase mi colpì molto. Mi aspettavo delle congratulazioni. Invece …».
Interessanti si rivelarono anche i particolari sulla nomina di Giudice al vertice della Guardia di Finanza. «So per certo – disse Vissicchio - che negli ambienti militari da tempo il nome di Giudice era sulla bocca di tutti: seppi che i suoi sostenitori erano Salvo Lima e Giovanni Gioia», notoriamente legati a Vito Ciancimino e sicuramente al corrente dei suoi già documentati rapporti con i Corleonesi. Io, invece, a Milano ero guardato in un certo modo perché «mi davo troppo da fare».

Vissicchio troppo zelante? Trasferito!

Due anni dopo, nel 1976, Vissicchio fu trasferito senza alcun giustificabile motivo dal Nucleo di Polizia tributaria del capoluogo lombardo a quello di Venezia. Quale era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso? «Stavo svolgendo – spiegò il colonnello ai magistrati – indagini su alcuni conti bancari in Svizzera con la polizia elvetica che mi mise a disposizione un elenco di personaggi importanti. Tra di essi c’era anche la signora Giudice che fu pedinata a Lugano mentre entrava in un istituto di credito. Lavoravamo in stretto contatto con il giudice di Milano Giuliano Turone. Sta di fatto che fui rimosso dall’incarico e trasferito».
Poi un’altra inquietante affermazione: «Sa, signor giudice, io e il mio gruppo eravamo riusciti a ricollegare le trame della mafia dei colletti bianchi all’estero, attraverso le loro finanziarie e società fittizie. A quel tempo, infatti il giudice Turone mi aveva incaricato di interessarmi del riciclaggio del denaro sporco proveniente dai sequestri di persona che a quel tempo nel nostro Paese erano facili come rubare una bicicletta. Comunque, anche quelle indagini furono interrotte». Per fortuna, il colonnello, grazie a quelle indagini era già riuscito a far finire in galera Luciano Liggio, che ci rimase fino alla morte.

Il tesoro del generale Raffaele Giudice

Un passo indietro: l’ anno dopo alla cattura di Liggio , la moglie del generale Raffaele Giudice deposita presso l’Unione Banche Svizzere ben centotrentamila dollari, acquista a Lampedusa un terreno sul quale fa costruire una villa e compra obbligazioni per ottanta milioni. Nei successivi quattro anni il patrimonio familiare si arricchisce di un cabinato a motore di sei metri e mezzo, di una decina di libretti al portatore per somme tra i venti ed i venticinque milioni, di una notevole quantità di argenteria e preziosi tenuti nascosti in cassette di sicurezza, di cinquanta milioni in Bot, di un terreno, due ville e due appartamenti a Palermo e di sei appartamenti in pieno centro a Roma.
Quando nel 1982 il generale viene condannato a sette anni di reclusione, lo stipendio medio di un ufficiale del suo livello è di circa trenta milioni l’anno.
Ma anche su questo gli autori della fiction hanno seguito il motto “nènti sàcciu, nènti dìcu e nènti vògghiu sapìri”. E niente hanno potuto vedere, sentire e sapere i telespettatori che non hanno mai conosciuto i fatti o li hanno dimenticati. Per loro ha fatto tutto il commissario col pizzetto, in collaborazione con Biagio Schirò.
«La fiction è fiction» si sente ancora dire. Ma non è proprio così perché le omissioni sospette e le evidenti falsificazioni , se da un canto hanno compromesso il pieno successo di una realizzazione televisiva tecnicamente ben fatta, dall’altro hanno disinformato l’opinione pubblica ed arrecato un grave danno alla memoria di fedeli servitori dello Stato che - dopo aver fatto il loro dovere in prima con competenza e coraggio, agendo ad oltranza e senza guardare in faccia nessuno - non sono stati ancora difesi dagli alti vertici dei Corpi di appartenenza.

ENZO GUIDOTTO
Presidente “Osservatorio veneto sul fenomeno mafioso”
[Modificato da -AbNormal- 05/02/2008 21:24]




Il gregge è l'annullamento dell'essere, ma il simbolo della sua sopravvivenza
05/02/2008 21:19
 
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