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Rieccomi qua. Grazie Donia per aver trasmesso i miei saluti a tutti gli amici. Ci tenevo.
Sono partito per Berlino il 25 aprile dopo avere ricevuto una di quelle convocazioni di lavoro alle quali si vorrebbe tanto ma non si può dire di no. Non avevo nessuna voglia di questo viaggio. Ero appena arrivato a Livorno da Milano e avevo elaborato un formidabile programma di autointrattenimento. Dare libero sfogo a un mio profondo desiderio, a lungo represso, di affondare anima e corpo in un voluttuoso e tiepido torpore tirrenico: staccare i telefoni, leggere poco e solo libri futili: Grisham, Ken Follet e altre porcherie del genere (avevo fatto buona scorta), camminare lungo il mare, ascoltare musica non troppo impegnativa, scottarmi al sole, depredare la mia cantina di qualche buona bottiglia, sonnecchiare, litigare in modo del tutto politically scorrect con il mio amico Vittorio, andare al cinema, chiacchierare nel nostro forum.
Ma una telefonata, arrivata a tradimento nel tardo pomeriggio del 24, ha fatto saltare per intero il mio nobile e fantasioso programma di vacanza "intelligente". E così, molto malvolentieri e di pessimo umore, mi sono messo in viaggio. Speravo di sbrigarmela entro il giorno dopo, ma le cose, come prevedevo e temevo, si sono complicate e ho dovuto rimanere lassù per diversi giorni ancora.
Però, come si dice, non tutto il male ecc.
In effetti, mi sono ritrovato a Berlino avendo di fronte un sabato e una domenica completamente vuoti, da riempire a mio piacimento, in attesa della ripresa del lavoro il lunedì. Ho accampato la scusa di parenti (assolutamente inesistenti) da andare a trovare per liberarmi dei colleghi e così potermene andare da solo e per due giorni alla scoperta di Berlino.
E Berlino, che non conoscevo, è stata una sorpresa. Anzi, tante sorprese.
Quella di scoprirne a poco a poco gli spazi smisurati che ti mettono addosso una strana sensazione di libertà e di agorafobia, di grande calma e di tensione quasi elettrica. Di perdersi nei suoi straordinari musei (quello del cinema nel Sony Center della Postdamer Platz basterebbe a giustificare un viaggio). Di camminare nelle sue notti piene di fascino perché poco illuminate e soffermarsi nelle birrerie sfolgoranti in un contrasto molto gioioso, quasi euforizzante. Di salire sui tram e andare a curiosare nelle zone più remote di quella che era la Berlino Est più popolare.
Piacevolissimo, diperdersi nei parchi e assaporare la primavera nell'erba nuova, nel profumo dei tigli, negli scoiattoli che ti si avvicinano senza timore.
Sconcertante e addirittura sconvolgente,immaginarsi la Berlino degli anni tra la fine della Prima Guerra Mondiale e l'avvento del nazismo, quella di Isherwood e di Doblin, delle lotte operaie e di Rosa Luxemburg, di Fritz Lang e di Marlene Dietrich, spazzata via dalla guerra, e di cui restano solo pochi frammenti e qualche nome che si tende a dimenticare o a esorcizzare in qualche targa stradale: Schoembergstrasse, per esempio.
Tristissima l'Alexanderplatz dove gli scempi peggiori del cattivo gusto neocapitalista (insegne oltraggiosamente al neon, vetrine cafone, McDonald's puzzolenti) si sono sovrapposti ai grigi residuati dell'edilizia del cosiddetto socialismo reale, il tutto sovrastato dalla torre della televisione, la Fernsehturm, un orrendo spillone alto 360 metri con infilzata in cima una palla da biliardo: terrificante.
Emozionante, entrare, grazie alla disponibilità di una signora affascinante, biondissima e gentilisima, nel Berliner Ensemble di Bertolt Brecht.
Liberatorio, finalmente, scoprire un ristorante che si chiama Bagdad (in Schlesischestrasse, a ridosso della Spree e non lontano dai 1300 metri di muro sopravvissuti, ultimo patetico e straziante reperto dei 150 chilometri costruiti nel 1961 e abbattuti a furor di popolo nel 1989. Lo cito con l'indirizzo perché se andate a Berlino non lo dovete perdere: né il reperto di muro "illustrato" con un centinaio di murales, di cui molti bellissimi, né il ristorante). Si chiama Bagdad ma è gestito da turchi. E qui finalmente, un disgraziato vegetariano come me ha potuto trovare scampo dai terribili, sciagurati e sanguinolenti piatti della cucina tedesca e abbandonarsi a orge impudiche a base di zuppe di lenticchie, carciofi ripieni, pasticci di uova e chi sa che cos'altro, frittelle di riso e verdure, sfogliatine alla panna acida, formaggi alle erbe in una dozzina di varianti, the aromatici, caffé strepitosi, dolci irresistibili. Tutto quanto una delizia, ve lo assicuro.
Quasi alienante,invece, camminare lungo la Wilhelmstrasse dove correva il muro e dove non c'è più traccia dei palazzi della Germania guglielmina né di quelli del potere nazista. Una sensazione lacerante quella di realizzare di colpo di essere proprio su quei metri quadrati di terreno sotto cui c'era il bunker di Hitler.
E man mano che proseguivo nei miei vagabondaggi, le emozioni diventavano più forti e mi ritrovavo a considerare come, in fondo, Berlino, tra quelle che conosco, sia la città più rasserenante e insieme più atroce di tutte.
Nessuna città, come Berlino, ha prodotto tanto male e tanto orrore.
Nessuna città, come Berlino, ha subito tanto male e tanto orrore.
Ed è proprio questa la sensazione più forte che mi è rimasta addosso. Perché Berlino mi è parsa, con le sue impressionanti architetture del nuovo, con la sua titanica capacità di ricostruzione e di recupero, con la sua gente ammirevole, con il suo sistema di trasporti che non ha eguali al mondo, con la sua voglia di avvenire, con la sua prodigiosa vivacità culturale, con il suo sperimentalismo, con la sua quieta e straniante malinconia, con il suo modo originale di pensare quello che si conviene chiamare (espressione orripilante) uno sviluppo sostenibile,la città europea più innovativa e più aperta al futuro; e nello stesso tempo uno sterminato paesaggio di memorie terribili, rese ancora più terribili dal loro sussistere in modo puramente metafisico: qui c'era il comando delle SS e l'ufficio di Himmler...qui c'era la Cancelleria...qui c'era il comando di polizia con le camere di tortura...qui c'era il balcone da cui si sono affacciati Hindemburg e Hitler nel 1933...qui c'era la prima vetrina infranta nella notte dei cristalli...qui nel 1933 Goebbels ha organizzato il grande rogo dei libri e delle opere dell'arte degenerata..e così via. Fino a non poterne più di questo assurdo ma inevitabile gioco del "qui c'era" che potrebbe andare avanti all'infinito. Perché...qui c'erano le torrette dei vopos...qui c'era la sede della Stasi...qui c'erano le fotoelettriche e i fili spinati ad alta tensione...qui c'erano le mitragliatrici...e lì c'erano le distese minate della terra di nessuno...e lì nel 1953 i carri armati sovietici hanno aperto il fuoco sugli operai in sciopero uccidendone duecento...e lì c'erano i bunker controllati dai russi...lì c'era (e ci sono i resti conservati per l'irritante e vanesio uso e abuso dei turisti) il Charlie Checkpoint dove nel 1963 Kennedy ha fatto scoppiare in lacrime milioni di persone dicendo "Ich bin ein Berliner"...Basta. C'è n'è abbastanza per nevrotizzare anche il più olimpico dei viaggiatori...
E allora, per sottrarmi alle paranoie del "qui c'era, lì c'era", mi costringevo a pensare a Berlino in un altro modo, proiettando quello che vedevo nel futuro. E mi assaliva l'irrazionale sensazione che solo da qui, se mai è ancora possibile, potrà passare il futuro di tutta l'Europa: perché di una possibile Europa futura mi è parso che oggi Berlino sia una sorta di laboratorio politico, sociale, culturale e, anche, morale.
In ogni caso, un futuro difficile: che deve assumersi tutta la responsabilità storica degli orrori del passato (e questo non è per nulla scontato), un futuro con tutte le croci della memoria, un futuro senza elusioni omissioni rimozioni (e neanche questo è scontato). Un futuro doloroso perché, come è stato detto, il sole può risplendere solo sulle sciagure umane.
Ma un futuro che abbia come sfondo sonoro, non lo scoppio delle bombe, il sibilo dei missili, lo sferragliare dei carri armati, ma il rasserenante scricchiolio della ghiaia dell' Unter den Linden che, tra la porta di Brandeburgo e la Schlossplatz finalmente liberate anche dall'ultimo calcinaccio di quel muro di vergogna, risuona oggi come doveva certamente risuonare sotto i passi di Goethe, di Beethoven.
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