Per lavoro sono costretta a fare servizi fotografici improvvisati, spiaccicata ad una parete in un b&b per farlo sembrare più grande di quanto non sia in realtà, con la luce fatta passare dalle tendine di pizzo tenute su dalla proprietaria, o a facce da pirla di un'azienda di colle. O a partite. O a manifestazioni. O a... matrimoni.
Insomma, ho imparato ad adattarmi a condizioni sicuramente non felici, o a imprevisti. Tempo fa ad una conferenza ho scattato da in piedi, sopra due sedie impilate una sull'altra. Oppure ho imballato la macchina col domopack perché pioveva di brutto, e chi doveva prestarmi la custodia impermeabile non era più reperibile.
Credo che questa serie di disavventure mi abbia portato ad amare le fotografie "da diporto", fatte cogliendo cose particolari, che colpiscono o... vatteallapesca. Cercate o scovate per caso. Il problema è soprattutto... il tempo.
Prendo le distanze dalle foto-puzzle, straricercate e calcolate. Non le so fare, non ci ho mai provato, non sento di doverci provare e non trovo stimolante - occhio, PER ME - provare a farle.
Mi piace vedere la ricerca della perfezione nelle foto degli altri, però. Amo ad esempio le foto di Janieta Eyre, dove ogni dettaglio è simbolo di qualcosa, racconta una storia o un pezzo di essa.
Prendo ancora più le distanze dalla foto di studio. C'è chi si diverte a prendere un barattolo, metterlo in una lightbox e usare le luci nel modo migliore. Io, che prendo la fotografia soprattutto come un divertimento personale, non riesco proprio a immaginare di fare una cosa del genere.