capolavori del passato

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tom waits
00domenica 22 febbraio 2004 11:58
"What's Going On" è uno dei capolavori della musica moderna. Con la sua radicalità, la sua impronta leggermente jazzata, le meravigliose orchestrazioni ed i piccati commenti politici, Gaye ridefinisce e lancia verso nuovi e sconosciuti orizzonti la soul music, orizzonti che a posteriori si riveleranno decisamente inferiori e noiosi rispetto a chi li ha delineati. Sin dal riff d'apertura si entra in un affascinante caleidoscopio sonoro, un fiume sensuale che si insinua tra le nostre coscienze. La title ed anche opening track è di una bellezza da togliere il fiato, esteticamente ricercatissima, emozionalmente vastissima. Il suo incedere ipnotico, i cambi di tonalità da brivido, la voce rilassata ma decisa di Marvin…Tutte caratteristiche che ritroviamo nel prosieguo dell'album, il quale appare come un grande concept, un'opera dove un mood dominante lega ogni pezzo, come lo scorrere inevitabile ed agrodolce del tempo. Unica eccezione ritmica a questo Eufrate musicale è la canzone finale, "Inner City Blues", dove il soul prende una piega funky decisa ed irresistibile. Smokey Robinson elevò "What's Going On" a suo album preferito di tutti i tempi.
Un album imprescindibile, uno di quelli da avere assolutamente in ogni discografia.



Marvin Gaye
What's going on
1971

recentemente ristampato in versione deluxe
"Cantare per reclamizzare la carta igienica...Puoi aver bisogno di soldi, ma allora vai a rubare al supermercato della 7 - 11 ! Fai qualcosa di dignitoso! Non sopporto la gente che permette alla propria musica di essere nient'altro che jingles pubblicitari per un paio di jeans o una lattina di Bud. Ma molti musicisti non posseggono i diritti sui loro brani. Se John Lennon avesse avuto anche la piu' lontana idea che un giorno Michael Jackson avrebbe potuto decidere sull'utilizzo del suo materiale, sarebbe uscito dalla tomba e l'avrebbe preso a calci nel culo, ma cosi' forte che tutti noi ci saremmo divertiti."
Tom Waits

[Modificato da tom waits 22/02/2004 12.06]

[Modificato da tom waits 22/02/2004 12.10]

tom waits
00domenica 22 febbraio 2004 12:28
Dylan, negli anni sessanta, è un fiume in piena.
Dà alle stampe più d'un album all'anno, e, contemporaneamente, rivoluziona il modo di fare musica.
Dagli esordi acustici, fino a questo “Blonde on blonde” (1966), apice conclusivo di una trilogia di maturazione dal folk al rock iniziata con “Bringing it all back home” (1965) e proseguita con “Highway 61 revisited” (sempre 1965), i classici non si contano.
Questa trilogia comprende alcuni dei classici più classici di sempre del repertorio dylaniano, da “Mr. tambourine man” a “Like a rolling stone” per arrivare a “Just like a woman”, tanto per pescare un brano per ognuno dei tre album.
Ci sono alcune ragioni che depongono a favore di “Blonde on blonde” come “classico dei classici” nella discografia di Dylan.
La prima è, appunto, la sua posizione di culmine in uno dei suoi periodi più creativi.
La seconda è dettata da motivi storici: è il primo album doppio della storia del rock; una canzone, “Sad eyed lady of the lowlands” sul vinile occupava da sola una facciata intera.
La terza è legata alla prima, ma è strettamente musicale: questo album è un fiume inarrestabile di suoni, parole, suggestioni rielaborate in modo assolutamente rivoluzionario. Dylan, in queste 14 canzoni ha riscritto la storia del rock, unendo in modo inedito strumenti tradizionali come il piano e le tastiere, creando un suono destinato a rimanere immortale, anche grazie all’aiuto degli Hawks di Robbie Robertson, che in seguito sarebbero diventati The Band. La Band per eccellenza, appunto.
La quarta ragione sono le canzoni, cantate nel modo più dylaniano possibile: una voce strascicata ed un’interpretazione assolutamente unica e personale. Le canzoni, dicevamo: dalla citata “Just like a woman”, a “I want you”, da “Visions of Johanna” a “Stuck inside of mobile with the Memphis blues again” non c’è quasi nulla di sbagliato in questo disco.
I passi successivi alla pubblicazione di questo “Blonde on blonde” sono tra i più noti della biografia dylaniana: il tour in Gran Bretagna che diede origine alla famosa contestazione della “svolta elettrica”. Il grave incidente in moto dell’estate del ‘66, la decisione di ritirarsi per qualche tempo dalla vita pubblica, l’incisione delle “basament tapes” (che videro la luce pubblica solo negli anni ’70) e il ritorno con “John Wesley Harding” a fine 1967, disco più radicato nel country che nel rock.
Al di là di ogni giudizio critico e storico, però, la bellezza e la freschezza di questo album rimane intatta ad oltre 30 anni di distanza.



Bob Dylan
Blonde on blonde
1966
tom waits
00domenica 22 febbraio 2004 12:45
Insieme a “Sgt. Pepper’s...” dei Beatles "Pet Sounds" viene frequentemente indicato dai critici come il disco più significativo della storia del rock.
Con “Sgt. Pepper’s...”, “Pet sounds”, uscito nel 1966, si disputa anche il titolo di “primo concept album”: anche se, a dire il vero, ciò che unifica le 13 canzoni del disco non è un concetto narrativo o uno schema strutturale, ma piuttosto un’unità di atmosfere sonore precedentemente inedita.
Secondo alcuni, “Pet sounds” è più un disco solista di Brian Wilson (che ne è anche il produttore) con i Beach Boys che un lavoro di gruppo: se è indubbio che la personalità del leader (espressa anche attraverso i testi di Tony Asher) emerge prepotente dai solchi dell’album, è altrettanto vero però che anche gli altri componenti della formazione vi contribuiscono in maniera significativa.
Con “Pet sounds”, Brian Wilson intende liberare i Beach Boys dalla nomea di “surf band” che, peraltro, aveva assicurato al gruppo grandi successi di vendita: e svolta verso l’introspezione e la malinconia, pur conservando alla musica una freschezza e una solarità mai eguagliate da altri protagonisti della scena musicale. Se gli arrangiamenti, specie quelli orchestrali, possono suonare oggi un po’ datati (erano ispirati alle colonne sonore hollywoodiane dell’epoca), l’accuratezza delle armonie vocali e il complesso, ma non greve “wall of sound” – Brian apprezzava moltissimo le produzioni di Phil Spector – conserva uno splendore affascinante: e anche canzoni dalla forma esplicitamente pop come “Wouldn’t it be nice” assumono una profondità e una valenza di gran lunga superiori alla media della musica circolante alla metà degli anni Sessanta.
Il capolavoro dell’album è probabilmente “God only knows” (secondo Paul McCartney, “la più bella canzone pop mai scritta”), e se “Sloop John B.” è il brano che più rimanda allo stile “da spiaggia” dei Beach Boys (è una canzone tradizionale, già ripresa dal Kingston Trio, che Alan Jardine aveva proposto come singolo: fu inclusa nell’album pur non essendo stata realizzata specificamente per “Pet sounds”), titoli come “You still believe in me”, “I’m waiting for the day” e “Caroline no” testimoniano la grandezza di un disco che – nato come reazione creativa a “Rubber soul” dei Beatles – ha il merito supplementare di avere stimolato la coppia Lennon-McCartney a cercare di emularlo e superarlo, dando vita a “Sgt. Pepper’s...”. La corsa al continuo sorpasso spingerà Brian Wilson a mettere mano a un nuovo lavoro, “Smile”, poi abortito: da quello sforzo il musicista uscirà mentalmente stremato, in rotta di collisione con il resto della band.



The Beach Boys
Pet Sounds
1966
tom waits
00domenica 22 febbraio 2004 12:54
to be continued
tom waits
00giovedì 26 febbraio 2004 13:17
Nel marzo 1967 pochi si accorsero dell'uscita dell'album d'esordio di una band destinata a influenzare buona parte della musica contemporanea sia da un punto di vista strettamente musicale sia per l'aspetto più propriamente culturale e di costume che sempre contraddistinguerà il gruppo.

Un disco che fotografa nitidamente un momento di creatività esaltante come quello della Factory di Andy Warhol, che fu produttore del disco e disegnò la celeberrima copertina raffigurante una banana gialla.
Canzoni in bilico tra dolcezza e rabbia, tra luce e tenebre, raccontate dalle parole di Lou Reed, cantore della New York viva e sporca di quegli anni, del lato selvaggio della strada, di droga e sesso. La musica, come i versi che accompagna, è talvolta aggraziata talvolta fragorosa fino a farsi quasi rumore, influenzata tanto dal rock elettrico quanto dagli esperimenti di La Monte Young e di certa musica contemporanea. Oltre alla strumentazione classica del rock, spicca la viola elettrica dal talentuoso John Cale, bassista e anima del gruppo insieme a Reed.

I Velvet Underground si proposero subito come gruppo unico per la forza dei testi e l'originalità della musica. "Heroin" o "I'm waiting for the man" sono racconti di vita drogata che richiamano William Burroughs, "Venus in Furs" è un insuperato capolavoro nell'unione di violenza e amore in poche parole colme di realtà. Ma non è tutto qui. C'è la dolce malinconia di "Sunday Morning", il marasma di "European Son", la semplicità di "There She goes again".
E poi Nico, la donna fatale che accompagna sogni e parole di tre brani dell'album, la cupa "All Tomorrows Party", i melodiosi versi d'amore di "I'll be your mirror".
Canzoni che splendono come gemme.
Oggi "The Velvet Underground & Nico" è uno degli ospiti fissi nelle classifiche dei migliori dischi di musica rock del Novecento.



Velvet Underground
Velvet Underground & Nico
1967

ristampato di recente in versione deluxe
(versioni mono e stereo, più alternate take)
"Cantare per reclamizzare la carta igienica...Puoi aver bisogno di soldi, ma allora vai a rubare al supermercato della 7 - 11 ! Fai qualcosa di dignitoso! Non sopporto la gente che permette alla propria musica di essere nient'altro che jingles pubblicitari per un paio di jeans o una lattina di Bud. Ma molti musicisti non posseggono i diritti sui loro brani. Se John Lennon avesse avuto anche la piu' lontana idea che un giorno Michael Jackson avrebbe potuto decidere sull'utilizzo del suo materiale, sarebbe uscito dalla tomba e l'avrebbe preso a calci nel culo, ma cosi' forte che tutti noi ci saremmo divertiti."
Tom Waits

[Modificato da tom waits 26/02/2004 13.49]

tom waits
00giovedì 26 febbraio 2004 13:35
Cosa sarebbe oggi il rock se non fosse esistito Jimi Hendrix?
Di fronte a tale genio la domanda è più che lecita. La sua carriera, come la sua vita del resto, fu così breve da far pensare, con un pizzico di fantasia, che fosse un alieno mandato sulla terra per portare un messaggio e tracciare una nuova via.
Aprì orizzonti nuovi alla chitarra elettrica scoprendo e sfruttando tutti gli effetti sonori che questa poteva dare, come distorsioni, feedback, wah-wah, delay, ed espandendo il suono lungo scale mai esplorate.
James Marshall Hendrix nato a Seattle nel 1942, comincia a suonare la chitarra all'età di undici anni, virtuoso e sperimentatore raggiunse un estremismo in cui confluirono elettrificazioni, amplificazioni, improvvisazioni, blues, rock, jazz, facendo vibrare le corde della creatività in ogni sperduto angolo dell'universo sonoro.
Dopo i primi due album, in cui la sua sperimentazione partiva dalla matrice blues con pezzi brevi e grezzi dove il suo strumento sembrava far esplodere cariche di tritolo, giunge a questo terzo capitolo con l'intento di allontanarsi dalla canonica forma-canzone per approdare ad una psichedelia stratificata e multicolore in cui fondere gli infiniti suoni dell'universo. Electric Ladyland è un concept album dalla durata inusuale per l'epoca di settantacinque minuti, registrato in un avveneristico studio di New York, parte due brani incisi a Londra, costruito e curato meticolosamente a differenza dei precedenti lavori nati quasi di getto.

Ad aprire l'album è una breve intro And Gods Made Love in cui la chitarra crea boati, scintille ed esplosioni, segue poi Have You Ever Been (To Electric Ladyland) che ci da il benvenuto in questo nuovo mondo fatto di piccoli viaggi onirici elettrici e psichedelici.
Dopo il boogie convulso di Crosstown Traffic, giunge la lunghissima intensa e vibrante Voodo Chile che nasce e fluisce come un'improvvisazione in cui tutto è funzionale per la recitazione
drammatica e sofferta della "sei corde" che sembra prima agonizzare rassegnata e poi ribellarsi gridando tutta la propria rabbia. Jimi unisce in un'unica anima la cupa rassegnazione del blues con la rabbia combattiva del rock, circondandola di un'aurea mistica.
Poi con 1983…(A Merman I Should Turn To Be) si arriva all'apice dell'ispirazione e del misticismo, l'anima viene sospinta in un volo cosmico e psichedelico interrotto da vertigini che la fanno cadere abbandonata su una landa desolata e infestata da demoni, per poi risollevarsi in aria sospinti da un vento divino.
Nell'album, come sottolineò lo stesso Hendrix, vengono rappresentate sia le forze oscure che tentano di imbavagliare la gente del pianeta, sia le forze della luce che sanno rimettere le cose a posto, eliminare i soprusi e creare armonia.
Il disco si conclude con una versione altamente elettrica di All Along The Watchtower, pezzo di Bob Dylan trasformato in un sogno lisergico in cui la chitarra celestiale pare spingere l'anima verso il paradiso, e Voodo Child (Slight Return) un pezzo caratteristico del repertorio hendrixiano in cui la chitarra sembra sparare a nemici infernali.
Electric Ladyland rappresenta il capolavoro di Hendrix, la punta massima della sua vena creativa e visionaria, che ancora oggi a più di trent'anni continua ad illuminare ed emozionare.


Jimi Hendrix
Electric Ladyland
1968

la copertina originale era questa, poi censurata:



"Cantare per reclamizzare la carta igienica...Puoi aver bisogno di soldi, ma allora vai a rubare al supermercato della 7 - 11 ! Fai qualcosa di dignitoso! Non sopporto la gente che permette alla propria musica di essere nient'altro che jingles pubblicitari per un paio di jeans o una lattina di Bud. Ma molti musicisti non posseggono i diritti sui loro brani. Se John Lennon avesse avuto anche la piu' lontana idea che un giorno Michael Jackson avrebbe potuto decidere sull'utilizzo del suo materiale, sarebbe uscito dalla tomba e l'avrebbe preso a calci nel culo, ma cosi' forte che tutti noi ci saremmo divertiti."
Tom Waits

[Modificato da tom waits 26/02/2004 13.51]

tom waits
00giovedì 26 febbraio 2004 13:48
Il 1970 è l'anno di massima fama per il gruppo di John e Tom Fogerty e questo disco è senza dubbio il loro capolavoro.
La voce roca e potentissima di John (il fratello minore e più talentuoso) straripa dagli altoparlanti e le sue grandi passioni (Bayou, Delta blues, R&R, R&B e Country) affiorano in ogni composizione, dando ai Creedence una rilevantissima parte nella scena West Coast, pur essendo piuttosto lontani dai tipici canoni psichedelici della Bay Area, da dove peraltro essi provengono.
C'è molto poco di sognante nelle loro canzoni, solo sudore, schiettezza e semplicità, una sorta di compendio di sei lustri o poco più di musica popolare americana.
Album dalle cadenze viscerali e trascinanti del blues del Delta e sulle atmosfere inquietanti dei rituali della jungla. Nasce cosi' Run Thru The Jungle, l'incubo piu' tetro e ipnotico della loro carriera.
Vi troviamo altri classici come "Travelin' band", "Long as I can see the light" e la cover di uno dei pezzi soul più famosi della storia, "I heard it through the grapevine". Qui la canzone interpretata in maniera leggiadra da Marvin Gaye subisce una trasformazione che la dilata a più di 11 minuti di puro e torrido rock blues, con John Fogerty autore di una prestazione vocale e chitarristica impressionante, da antologia.
Canzoni senza fronzoli, dirette, magnetiche, country-rock viscerale per le quali è difficile trovare aggettivi, ma delle quali è semplicissimo innamorarsi.
Anche negli anni dell'elettronica e dei computer.


Creedence Clearwater Revival
Cosmo's Factory
1970
"Cantare per reclamizzare la carta igienica...Puoi aver bisogno di soldi, ma allora vai a rubare al supermercato della 7 - 11 ! Fai qualcosa di dignitoso! Non sopporto la gente che permette alla propria musica di essere nient'altro che jingles pubblicitari per un paio di jeans o una lattina di Bud. Ma molti musicisti non posseggono i diritti sui loro brani. Se John Lennon avesse avuto anche la piu' lontana idea che un giorno Michael Jackson avrebbe potuto decidere sull'utilizzo del suo materiale, sarebbe uscito dalla tomba e l'avrebbe preso a calci nel culo, ma cosi' forte che tutti noi ci saremmo divertiti."
Tom Waits

[Modificato da tom waits 26/02/2004 13.52]

Sarah
00sabato 6 marzo 2004 10:00
Re:

Scritto da: tom waits 22/02/2004 12.28
Dylan, negli anni sessanta, è un fiume in piena.
Dà alle stampe più d'un album all'anno, e, contemporaneamente, rivoluziona il modo di fare musica.
Dagli esordi acustici, fino a questo “Blonde on blonde” (1966), apice conclusivo di una trilogia di maturazione dal folk al rock iniziata con “Bringing it all back home” (1965) e proseguita con “Highway 61 revisited” (sempre 1965), i classici non si contano.
Questa trilogia comprende alcuni dei classici più classici di sempre del repertorio dylaniano, da “Mr. tambourine man” a “Like a rolling stone” per arrivare a “Just like a woman”, tanto per pescare un brano per ognuno dei tre album.
Ci sono alcune ragioni che depongono a favore di “Blonde on blonde” come “classico dei classici” nella discografia di Dylan.
La prima è, appunto, la sua posizione di culmine in uno dei suoi periodi più creativi.
La seconda è dettata da motivi storici: è il primo album doppio della storia del rock; una canzone, “Sad eyed lady of the lowlands” sul vinile occupava da sola una facciata intera.
La terza è legata alla prima, ma è strettamente musicale: questo album è un fiume inarrestabile di suoni, parole, suggestioni rielaborate in modo assolutamente rivoluzionario. Dylan, in queste 14 canzoni ha riscritto la storia del rock, unendo in modo inedito strumenti tradizionali come il piano e le tastiere, creando un suono destinato a rimanere immortale, anche grazie all’aiuto degli Hawks di Robbie Robertson, che in seguito sarebbero diventati The Band. La Band per eccellenza, appunto.
La quarta ragione sono le canzoni, cantate nel modo più dylaniano possibile: una voce strascicata ed un’interpretazione assolutamente unica e personale. Le canzoni, dicevamo: dalla citata “Just like a woman”, a “I want you”, da “Visions of Johanna” a “Stuck inside of mobile with the Memphis blues again” non c’è quasi nulla di sbagliato in questo disco.
I passi successivi alla pubblicazione di questo “Blonde on blonde” sono tra i più noti della biografia dylaniana: il tour in Gran Bretagna che diede origine alla famosa contestazione della “svolta elettrica”. Il grave incidente in moto dell’estate del ‘66, la decisione di ritirarsi per qualche tempo dalla vita pubblica, l’incisione delle “basament tapes” (che videro la luce pubblica solo negli anni ’70) e il ritorno con “John Wesley Harding” a fine 1967, disco più radicato nel country che nel rock.
Al di là di ogni giudizio critico e storico, però, la bellezza e la freschezza di questo album rimane intatta ad oltre 30 anni di distanza.



Bob Dylan
Blonde on blonde4
1966




[SM=x39857] [SM=x39857]
tom waits
00sabato 6 marzo 2004 12:11
Sarah, conosci / ascolti Dylan??

wow[SM=x39854]
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