"Solaris" è un romanzo del polacco Stanislaw Lem che, solo con qualche forzatura, si può considerare un autore di fantascienza. In realtà questo scrittore è molto più interessato all'universo della psiche umana e alle sue tensioni metafisiche, dei comportamenti e dei sentimenti, piuttosto che a quello delle galassie, delle astronavi e degli alieni. Ai puri e duri della science fiction, di solito, Lem non piace: troppo cerebrale, troppo mistico, troppo elucubrante, troppo statico.
E invece è probabilmente proprio per questo che dal suo romanzo il tormentato e tormentoso regista russo Andrej Tarkovskij trasse nel 1972 il film omonimo: il quale, dopo aver subito molteplici e brutali mutilazioni da parte del macellaio De Laurentis (durava in origine circa tre ore, troppe dal punto di vista commerciale) è stato recentemente restaurato e riproposto nelle cineteche.
Il "Solaris" di Tarkovskij è un film lento, dilatato, taciturno, lirico, filosofeggiante, scenograficamente spartano, a volte pesante, mai banale o scontato. Un film discutibile ma interessante e coinvolgente: la sofferta odissea metafisica di un gruppo di uomini che si dibattono dentro se stessi e cercano dolorosamente di dipanare le maglie aggrovigliate del proprio destino: che corre "al di qua" e "al di là" della vita, dello spazio e del tempo.
Il remake di Steven Soderbergh non è niente di tutto questo. Soderbergh ha realizzato un film scenograficamente molto curato, mirabilmente fotografato da lui stesso, spettacolarmente claustrofobico, intepretato da George Clooney (un po' legnoso e non sempre a suo agio: e più a disagio quando esibisce il volto che non quando mostra il sedere), e da Natasha McElhone (morbidamente androgina, bellissima e intensa).
A me il film di Soderbergh è piaciuto.
E mi è piaciuto proprio perché Soderbergh non si è limitato a fare un remake hollywooddiano del vecchio "Solaris", ma ha tentato una strada nuova, ha cercato di proporre una sua intepretazione del romanzo, di raccontare una "sua" storia e non di rifriggere quella di altri.
Ha lasciato perdere tutto quello che costituiva il retroterra cosmogonico e filosofeggiante del racconto di Lem e del film di Tarkovskij e si è concentrato sulla storia d'amore e, soprattutto, sullo strazio di un uomo che vive con angoscia la perdita della donna amata.
Il risultato è un versione moderna, collocata nel magma magnetico del pianeta Solaris, della favola di Orfeo e Euridice.
Il dottor Chris Kelvin è un uomo alla deriva, prosciugato dalla depressione e dai sensi di colpa per il suicidio della moglie, impietrito nel dolore.
Ma come la musica riporta a Orfeo la sua Euridice, sottraendola all'Ade, così la memoria, il richiamo dei ricordi e un non mai spento sentimento d'amore riporteranno a questo naufrago dell'esistenza la moglie Rheya, sottraendola alla morte e rigenerandola come un clone: ma appassionata, tangibile e capace d'amore ancor più che nella vita perduta.
Non vi dico di più perchè il fascino del film sta proprio nel racconto del complicato rapporto che si crea tra questa coppia (vera o immaginata che sia) imprigionata nell'involucro, freddo e ostile come una sala d'obitorio, di una stazione spaziale alla deriva nell'universo.
Soderbergh scandisce mirabilmente ogni immagine, fruga negli occhi, indugia sulla morbida plasticità dei volti, si lascia illuminare dai bagliori degli sguardi, sfiora la pelle dei suoi personaggi, li riveste di chiaroscuri, scandaglia nella loro psiche nel tentativo di capire e di farci capire che, in fin dei conti, ognuno di noi quando ama qualcuno ama soprattutto una immagine; che nel sonno e nel sogno si è più veri che nella realtà; che i sogni non muoiono all'alba perché continuano a vivere nel pensiero cosciente; che il sogno stesso è paradossalmente più vivo e più vero della vita; che la vita e la morte forse sono la stessa cosa, sono lo stesso sogno.
Come ha detto Zen, "Solaris" di Steven Soderbergh non è di certo, al di là del pretesto narrativo, un film di fantascienza. Potrebbe benissimo essere rappresentato in un teatro, visto che non ha bisogno di nessun effetto speciale e che la missione galattica è del tutto inessenziale.
E' invece un film psico-esistenziale, un apologo - delicato e atroce - sull'amore. Proprio come la favola di Orfeo e Euridice che Cesare Pavese, nei "Dialoghi con Leucò", ha raccontato in questo modo: "E’ andata così. Salivamo il sentiero tra il bosco delle ombre. Erano già lontani il Cocito, lo Stige, la barca, i lamenti. S’intravedeva sulle foglie il barlume del cielo. Mi sentivo alle spalle il fruscio del suo passo. Ma io ero ancora laggiù e avevo addosso quel freddo. Pensavo che un giorno avrei dovuto tornarci, che ciò che è stato sarà ancora. Pensavo alla vita con lei, com’era prima; che un’altra volta sarebbe finita. Ciò che è stato sarà." La conclusione che Pavese dà alla favola è molto diversa da quella che le dà Soderbergh. Non vi rivelo né l'una né l'altra. Leggete il libro e andate a vedere il film.
Al film
Alla regia:
Alla sceneggiatura:
Alla fotografia
A Natasha McElhone
A George Clooney: n.c.
PS
Sul tema di Orfeo e Euridice ha scritto una canzone anche il professor Roberto Vecchioni. Questa però potete tranquillamente ignorarla: è una brutta canzone, uno sgorbiaccio da villanzone su uno dei più bei miti della cultura occidentale.
Ci sarebbe anche l'"Orfeo e Euridice" di Christopher Willibald Gluck, uno dei più bei melodrammi del Settecento, ma non ve ne parlo. Così come non vi parlerò dell' Orfeo di Virgilio e di quello di Ovidio. Sono già stato abbastanza noioso.