Domani, festa dei defunti, a casa De Finestraiis si mangia la cassoeula. Sui libri di cucina potete trovarla anche sotto la voce "bottaggio", ma è inutile che varchiate i confini del sacro suolo longobardo cercandone notizia: qui, per tutti, è semplicemente
'a cassoeula. Lo si prepara, questo stufato di carne e verdure, a partire dal 2 novembre
"perchè le verze devono prendere la prima gelata", dicono i nostri vecchi. Addirittura, i duri e puri posticipano la prima data utile per cucinarla al giorno dell'Immacolata:
"dumà i teruni i fen 'a cassoeula prima dàa Madòna" diceva, senza alcuna malizia e ben prima dell'avvento leghista, la nonna di una mia amica.
Preparare la cassoeula, e poi mangiarla, è un'esperienza che va al di là del semplice dato gastronomico. Prima di tutto perchè la cottura è lunga, va fatta a fuoco lento, e finisce per occupare mezza mattinata e riempire la casa dell'odore di ortaggi stufati. I bambini sudamericani che sniffano la colla devono provare le stesse sensazioni, vien da pensare. Poi perchè la cassoeula non solo appaga il palato, ma influisce sul modo di percepire la realtà e di rapportarsi ad essa. Lo capite subito quando uno ha mangiato la cassoeula: l'occhio spento, l'incedere ondeggiante, il primo bottone dei pantaloni rigorosamente slacciato, il ruttino represso per pura buona educazione, l'abbiocco fatale attorno alle tre di pomeriggio.
Costine di maiale, salamini, le cotenne che dividono i commensali tra pro e contro, le verze. Un piatto da morti di fame, quali sono stati i contadini e gli operai lombardi fino agli anni del boom e forse anche un po' oltre. Ma lo si mangiava anche nelle case dei
sciuri, magari sottovoce.