Quasi quanto la mia esperienza.. anzi... io questi 20 anni li ho vissuti tutti, a partire dal mio ZX81 d'occasione...
Personal computer, vent'anni e li dimostra
di Toni De Marchi
Se c’è un merito che va riconosciuto a «Big Blue» è quello di aver inventato la definizione di «personal computer». Un espediente di marketing uscito probabilmente dalla penna di un copywriter rimasto ignoto. Perché il computer che uscì dalla fabbrica della Ibm il 12 agosto 1981 era sì una macchina rivoluzionaria, ma non era affatto il primo computer «personale».
Certo, al gigante statunitense dei computer (e prima delle macchine per ufficio) dobbiamo riconoscere il merito indubbio di aver dato una spinta decisiva alla diffusione di uno strumento allora più esoterico che esotico, grazie alla straordinaria capacità di penetrazione e di condizionamento del mercato delle aziende di cui la società statunitense era ed è uno dei leader indiscussi.
Vent’anni fa l’Ibm 5155 (questa la sigla ufficiale della nuova macchina) uscì dalla fabbrica ed iniziò l’era del «personal computing». Era una macchina modestissima, se confrontata con gli standard oggi abituali, ed estremamente costosa in rapporto a questi stessi standard. Il processore era un Intel, lo stesso produttore che oggi fornisce i processori a quasi l’80 per cento dei personal computer del mondo, capace di «lavorare» a 4,77 MHz. Oggi i processori Intel Pentium 4 che equipaggiano i pc più recenti superano 1,5 GHz di velocità, 350 volte maggiore del loro progenitore. Se è vero che di «personal computer» Ibm se ne vendettero oltre mezzo milione di esemplari in appena un anno, cioè cinque volte di più delle previsioni iniziali, è anche vero che la maggior parte finì sulle scrivanie degli impiegati delle grandi corporation e non nelle case della gente. L’idea di «personal» era più legata alle dimensioni e alla relativa facilità d’uso che alla destinazione di questa macchina che restava comunque molto costosa. Il primo pc di «Big Blue» costava infatti attorno ai duemila dollari, ben oltre dieci milioni di lire ai valori attuali. E nonostante ciò, il settimanale statunitense «Time» capì la portata della novità, la sua capacità innovativa, dirompente e quell’anno gli dedicò la copertina che di solito riserva al «Man of the Year», all’uomo dell’anno.
A vent’anni di distanza, tuttavia, il vero equivoco sta in quell’aggettivo «personal». Perché il computer Ibm non era affatto il primo computer da scrivania o per uso personale. Prima di lui c’erano stati vari tentativi, più o meno rudimentali. E la serie di sigle di macchine su cui si sono scozzonati migliaia di giovani entusiasti, è pressoché infinita. Alcuni nomi come Commodore, Tandy Shack e soprattutto Sinclair furono altrettanti capisaldi di percorsi appassionati alla scoperta di uno strumento che avrebbe cambiato il mondo, anche se nessuno, allora lo immaginava. Tutti precedenti l’Ibm di cui oggi celebriamo il ventesimo anniversario. Ma erano macchine essenziali, primitive quasi, giusto per quelli che oggi definiremmo «smanettoni». In realtà il primo, vero computer personale fu costruito a Cupertino, in California, da Steve Jobs e Steve Wozniak. Si chiamava Apple II (l’Apple I fu poco più che un prototipo)e arrivò sul mercato nel 1977. Non a caso, in calce ai suoi comunicati stampa, la Apple riporta questa frase: «Apple ha dato vita alla rivoluzione del personal computer, negli anni 70 con Apple II e ha proseguito su questa strada reinventando il personal computer, negli anni 80, con Macintosh». L’Apple II è stato anche il computer più longevo mai costruito al mondo. Uscì infatti di produzione, dopo infiniti rimaneggiamenti e migliorie, solo nel 1993, sedici anni dopo il primo esemplare. Rispetto al primo Ibm, l’Apple II aveva delle caratteristiche di avanguardia, come la possibilità di gestire la grafica, anche a colori. Solo sei, allora, contro i milioni di colori dei computer moderni. Nonostante la capacità d’urto della Ibm e l’enorme capacità finanziaria, Apple resterà per molti anni l’azienda più innovatrice nel settore. Sarà sempre Apple che nel 1992 con Lisa porterà al pubblico il concetto di interfaccia grafica (creata anni prima nei laboratori di Stanford della Xerox, ma rimasta sperimentale), diventata popolare due anni dopo grazie alla rivoluzione del Macintosh. Dunque, anche se è giusto ricordare il ventennale del «personal computer», se non altro per il suo valore simbolico, è altrettanto giusto ricordare come il vero scontro nell’industria del personal computer, che fece poi prevalere sul mercato i cosiddetti «Ibm compatibili» rispetto ai computer della Apple che proponeva soluzioni sicuramente più originali ed innovative, sia stato attorno al «sistema operativo». Il software, cioè che costituisce il cervello ed il cuore del computer, quello che lo fa funzionare e fa funzionare tutti gli altri programmi che ci installiamo sopra. Perché Ibm aveva, sì, costruito la macchina, ma il software che la faceva girare «Big Blue» lo aveva comperato da una società allora perfettamente sconosciuta: Microsoft di Bill Gates. Si trattava dell’ MS-DOS (Microsoft Disk Operating System), derivato da un software scritto in sei settimane da Tim Paterson. Si trattava di un sistema molto essenziale, dove i comandi non era iconizzati e simbolizzati come sui computer che conosciamo oggi e di cui il Macintosh fu il progenitore assoluto e riconosciuto, bensì dovevano essere scritti a mano usando termini spesso oscuri. Il DOS, infatti, è anche definito un sistema operativo «command line», a riga di comando.
L’interfaccia grafica per i computer Ibm compatibili arriverà infatti solo nel novembre 1985, più di quattro anni dopo il cosiddetto «primo» pc e con due anni di ritardo rispetto al suo annuncio in una famosa conferenza stampa tenuta a New York da Bill Gates: si chiamava Windows, anch’esso uscito dai laboratori della Microsoft. E anche Windows (che vuol dire «finestre», con un immediato riferimento alla sua modalità di funzionamento) conobbe il trionfante successo che sappiamo probabilmente anche grazie al suo nome, al quale Bill Gates all’inizio era fieramente contrario. Quello che ancora non era il Paperon de’ Paperoni dell’informatica avrebbe voluto chiamarlo banalmente «Interface Manager» (gestore dell’interfaccia). Alla fine accettò il consiglio del suo direttore del marketing, Rowland Hanson. E la storia del mondo quasi certamente cambiò.
Da "L'Unità" online.
LuVi
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