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Un suggerimento (del tutto trascurabile) per un film di Pasqua

Ultimo Aggiornamento: 25/03/2005 13:49


Rosetta è un'operaia da catena di montaggio. Ha 17 anni. Non è particolarmente bella. E' una ragazzina come tante altre. Di diverso, come suoi segni particolari, ha lo sguardo indurito e ostile, la mascella serrata, le labbra senza sorriso, un corpo in continua, frenetica agitazione.
Un certo giorno, scaduto il periodo di prova, la licenziano. Ma Rosetta è una guerriera. Non si arrende. Tutte le mattine si alza e affronta la battaglia per la riconquista di un lavoro. Uno qualunque purché le permetta di non fare la fine di sua madre, un' alcolizzata che, dentro una squallida roulotte, affonda nel disfacimento fisico e psichico.
Rosetta non frequenta nessuno, non ha amici né amiche. Ai ragazzi proprio non ci pensa. Il suo pensiero è uno solo, fisso e ossessivo: trovare un lavoro, a tutti i costi. Così affronta la sua giornata come un animale selvatico affronta la quotidiana lotta per procurarsi il cibo. Scavalca il recinto di filo spinato della bidonville dove vive e, fasciata nel suo patetico gonnellino grigio e nella sua felpa rossa e blu, si getta nella mischia con il furore e la determinazione indotti dalla fame. Fuori, a partire dalla periferia degradata in cui vive, c'è una jungla terribile, un territorio di ferocia e di sopraffazione dove altri "animali" ancora più feroci si aggirano per contendersi le prede.
Rosetta è pronta a tutto, si sente capace di tutto, persino di aggredire, di ferire e di uccidere. Non esita a ricorrere alla delazione quando si tratta di sottrarre il lavoro a un altro, anche se quest'altro è l'unica persona che abbia cercato di aiutarla. La lotta per la sopravvivenza è spietata. Rosetta sa che per esistere deve lavorare; e che il lavoro, come lo zucchero in tempo di guerra, è una merce sempre più razionata, quasi introvabile.
Il film è duro, secco, impietoso. Un viaggio assai poco confortevole dentro la jungla della disoccupazione, della miseria, dell'ingiustizia sociale, dell'emarginazione, della viltà dei deboli e delle prevaricazioni dei forti. Rosetta si procurerà il lavoro. Lo afferrerà come una jena afferra il brandello sanguinolento di un animale ferito. Se ne nutrirà, indifferente a tutto il resto, perché questo è ormai il suo unico bisogno. Fino a quando non regge più e pensa di farla finita. Ma la bombola del gas è vuota. Rosetta si ritrova sola, emarginata nel cuore degradato della sua infame bidonville. E del tutto indifesa si lascia dolorosamente ferire dal pensiero - non detto ma espresso attraverso uno dei più bei primi piani della storia del cinema contemporaneo - che forse c'è, o dovrebbe esserci, un modo diverso di appartenere alla specie che si definisce "genere umano".
Rivedendo questo film, cinque anni dopo la sua uscita, mi sono reso conto che quella di Rosetta, in fondo, è una Via Crucis.
Ecco perché mi sento di proporvelo come film di Pasqua. Ma non solo per questo. "Rosetta" è infatti uno dei migliori film europei di questi ultimi cinque anni. Certo non è un film divertente, non è un film consolatorio, non è un film facile. Ma è un film molto bello, autentico, essenziale, appassionante, esente da qualsiasi tipo di retorica ideologizzante o di sentimentalismo sociologico (alla Ken Loach, per intenderci). Un film che raccoglie degnamente le lezioni, squisitamente europee, di Rossellini e Bresson.
Dulcis, naturalmente, in fundo, "Rosetta" è un film che può aiutare a neutralizzare l'eccessiva zuccherosità delle troppe uova di cioccolato e colombe con cui ci accingiamo a santificare la Pasqua.



Il nome della protagonista - Rosetta - è un omaggio che i fratelli Dardenne (belgi) hanno inteso rendere alla scrittrice italiana Rosetta Loy.
Dei fratelli Dardenne vi segnalo anche il film precedente "La promesse" del 1996. Altro ritratto crudo di un immigrato adolescente alle prese con problemi di integrazione.
Palma d'oro al festival di Cannes del 1999.
Il volto e i gesti di Emilie Dequenne, premiata allo stesso festival come migliore attrice protagonista, si imprimono nella memoria e ci restano per sempre come cicatrici brucianti.

24/03/2005 09:04
 
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Re:

Scritto da: marlowe 24/03/2005 9.04

"Rosetta" è infatti uno dei migliori film ...




Sciocchezze! QUESTO è un gran film:



LO ZIO DI BROOKLYN




Regia: Daniele Ciprì, Franco Maresco
Interpreti: Giuseppe Di Stefano, Salvatore Gattuso, Ernesto Gattuso, Luigi Cinà, Pippo Agusta, Antonino Bruno, Rosario Carollo, Francesco Arnao
Durata: h 1.35
Nazionalità: Italia 1995
Genere: commedia


Qualche immagine:








Una recensione presa da internet (ATTENZIONE: SPOILER):


Un uomo dallo sguardo ebete si estrae un occhio di vetro. Un tizio tra mugolii e frasi amorose fa sesso con un'asina, mentre il rispettivo padrone della bestia ne regge le redini e ad orgasmo avvenuto si fa pagare l'inconsueta marchetta. La telecamera inquadra squarci di detriti urbani attorno a Palermo. Un presentatore impreparato e insicuro ci presenta il film come un'opera il cui fine ultimo è rompere i luoghi comuni sulla Sicilia. "Lo Zio Di Brooklyn" parte alla grande: conosciamo il cantante LoGiudice che intona uno dei suoi capolavori ("Playboy") mentre due individui nudi assistono allo show. Arriva mafiosissimo un figuro che lo invita a esibirsi alla festa di Don Masino, uno dei boss della zona. Entriamo quindi a casa della famiglia Gemelli: il nonno e il nipotino Sarò, paraplegico, si accingono a mangiare, ma il vegliardo viene colto da infarto, sputa letteralmente tutto sulla telecamera e tira le cuoia. Nel frattempo lo zio di Sarò, ignaro, è a spassarsela in un cinema porno (hardcore in siciliano: delirio!): trattasi di Iachino, un mezzo maniaco sessuale (fa gesti osceni in continuazione) molto simpatico. Tornando a casa incontra dei ciccioni in mutande che mangiano roba non identificata apostrofandolo: "U sticchiu bellu è?", poi osserva strani esseri simili a fantasmi intenti a trasportare delle bare a spalla: tali scene oniriche accompagnano l'intero film, conferendogli un background quasi macabro. Nel suo tragitto Iachino incontra un altro protagonista della pellicola: un nonno ciclista mezzo matto fissato con le donne e gli ufo. Una volta rincasato, il nostro scopre la tragedia: lo accolgono i suoi due fratelli Totò e Ciccio, che si apprestano ad organizzare il funerale. Il corteo funebre, assolutamente squallido, marcia verso il cimitero, incrociando un'auto che viaggia senza nessuno a bordo. D'un tratto ecco che la marcia si trasforma in una corsa con tanto di doppiati e velocisti. Ad un incrocio, nel cui centro sta un uomo in mutande (tali esseri immobili saranno una costante scenografica accanto alle rovine urbane), il funerale dei fratelli Gemelli si scontra con quello di mafiosi, a cui bisognerà cedere il passo: mentre il primo corteo è composto da poveri reietti guidati da un asino, il secondo è ultralusso con tanto di carrozza "fin de siècle", gente in doppiopetto e banda musicale del paese. In coda osserviamo infine due nani, che seguono a distanza. Saranno proprio i due (dei quali uno rutta come un mantice in continuazione) ad avvicinare, a cerimonia avvenuta, Totò Gemelli con una proposta "che non può rifiutare", pur rimanendo sul vago. A questo punto iniziano nell'ambito del film vero e proprio, le intromissioni da parte di alcuni personaggi assurdi e disgustosi: il primo è l'uomo calvo in mutande. Si avvicina alla telecamera e conta gli spettatori, ma sono pochi è lui sa il perché: "Il film fa schifo!". Poi sputa alla telecamera e insulta un ipotetico spettatore che sta per andar via. Segue poi il Mago Zoras, guida spirituale del cantante fallito LoGiudice, e scopriamo che ambedue hanno problemi con le loro madri. Mentre quella del primo è possessiva e odia il mestiere del figlio, la genitrice di Zoras è completamente folle: urla, canta la canzone "Mamma" e viene costantemente insultata. Ed è proprio durante questa scena che scopriamo quanto si sta verificando nella zona: due famiglie mafiose si stanno scontrando e in un attentato il figlio di Don Masino riporta un grave trauma restando immobilizzato. Si prospettano carneficine inaudite. Nel frattempo il boss, per festeggiare la scampata morte del figlio (che comunque è un vegetale), organizza una festa: vi partecipano solo uomini, ovviamente picciotti d'onore, che ballano tra loro come tradizione vuole, e mangiano di gusto. Nel locale troviamo anche i nani, ma alle parole minacciose di Don Masino che promette vendetta, si allontanano di gran corsa. La guerra ha quindi inizio. LoGiudice tenta di cantare ma è sommerso dai fischi, e per riportare l'ordine in sala ecco arrivare un presentatore che racconta una squallidissima barzelletta ("La differenza tra la donna e la camera d'aria: la camera d'aria quando buca sgonfia, la donna gonfia!" - il livello è lo stesso di un paio di "comici" che imperversano su alcune tv private toscane N.d.R). Intanto a casa Gemelli regna la disperazione e la povertà; Totò e Ciccio tentano di distrarsi lavorando, Iachino pensa solo alle donne ("Allu sticchiu!"). Recatosi in una piazza da giorno del giudizio per vendere verdura, il buon Totò viene nuovamente avvicinato dai soliti nani "inciucioni", che stavolta però avanzano la loro richiesta, tra un rutto e l'altro: dovrà ospitare in gran segreto una persona a loro molto cara. Facciamo poi la conoscenza della tremenda madre di LoGiudice: eccola a un funerale, circondata da altre megere vestite di nero col fazzoletto in testa (notare: si tratta di uomini vestiti da donna, con tanto di baffi e sigaro acceso. Nell'universo descritto dal film, come vedremo, non c'è posto per la femminilità), mentre lancia improperi e offese al figlio ("Cantante di minchia!). E LoGiudice, triste e sconsolato, intona in lacrime la sua splendida "Playboy". In stazione finalmente arriva lo sconosciuto atteso dai nani: è un vecchio in giacca e cravatta dallo sguardo glaciale. Il rione intanto festeggia il santo patrono con tanto di processione. A seguire la statua venerata (che scopriremo essere il tizio senza un occhio di inizio film, detto Santo Poliremo), solo poche persone, tra cui spiccano mago Zoras e rispettiva madre (che litigano di continuo). E' a questo punto che fa finalmente la sua comparsa il personaggio più schifoso in assoluto, vero campione del Brutto: in una fetida e marcia cantina, circondato da cani affamati, un uomo enorme, strabordante di grasso, mangia e beve in continuazione, scorreggiando, ruttando, proferendo un'unica parola pronunciata con accento inglese: "Certamente". Una visione raccapricciante (e compianta, visto che non è più fra noi… Sniff! - N.d.R). Sul versante mafioso la vendetta intanto ha inizio: mentre Don Masino dà ordini ai suoi ("Hanu 'e vidire 'u sangu 'sti due nani curnuti!"), i nani portano il vecchio misterioso a casa Gemelli. Là si raccomandano di mantenere il segreto, facendo passare al massimo il vecchio per un loro "zio d'America". Stacco improvviso e ritorno alla processione: la mamma di Zoras prima deve far pipì, poi ha uno stimolo "defecativo" e il poveretto, disperato, la insulta ("Vecchia bottanazza!"). Torna inoltre in scena l'uomo calvo in mutande che porta a spasso un cane e questa volta copre di insulti gli attori del film. L'ennesimo folle ferma la processione e canta un'incomprensibile canzone napoletana, Nino D'Angelo style. Dopo aver ascoltato il vecchio ciclista raccontare le sue pene d'amore (si domanda il perché le donne siano tutte sparite), ci rechiamo nel covo di Don Masino: qui il boss canta una celeberrima canzone "camorrista" ("Curtiellu Cu' Curtiellu!", già interpretata da Merola in "Sgarro Alla Camorra") agli scagnozzi estasiati ("Minchia cumu canta bbuonu!"). Si avvicina l'Apocalisse: Palermo è stata invasa dai cani (splendida metafora delle faide mafiose) e nessuno può più uscire per le strade. A casa LoGiudice, mentre la mamma stesa a letto si defeca letteralmente addosso, le lancette della sveglia ci ipnotizzano per poi condurci all'esterno, dove si assiste a una bellissima scena onirica e terrificante: osserviamo il tempo scorrere velocissimo e dei cani infernali uscire dal sottosuolo, incutendo reale terrore. Anche a casa Gemelli vige la paura: i nani non si vedono, Iachino vorrebbe "u' sticchiu" e ascolta gli ululati che provengono dall'esterno ("Puru i cani vuanu ficcare"), Totò e Ciccio sono disperati, Sarò urla dalla sua carrozzella, lo Zio di Brooklyn li guarda beffardi. Vanno tutti a dormire, ma il mattino successivo il misterioso vecchio è sparito. La disperazione regna sovrana ma i fratelli si fanno coraggio ed escono a cercarlo. Iachino è intento a spingere la carrozzella del nipote, quando finalmente vede una donna: trattasi di un uomo of corse - un nano, per la precisione - ma ai suoi occhi è appetibilissima ("Minchia piezzu 'e sticchiu! Chi minne e chi culu!"). Molla quindi il povero Sarò per inseguirla, ma sarà rifiutato e malmenato. Intanto il ciclista per recuperare la bici che gli era stata rubata precedentemente proprio dal nano, giunge in un luogo fatiscente ove scopre che si stanno costruendo una quantità incredibile di bare. Altro siparietto con il ciccione affamato e i cani, e si torna alla famiglia Gemelli. Perduto Iachino, Totò e Ciccio, con Sarò e carrozzina al seguito, vagano per il rione completamente deserto, avvolti da una luce irreale. Odono una musica di festa e finiscono per seguire i soliti esseri che portano le bare su per una collina, fino a ritrovare i nani e lo Zio di Brooklyn, e addirittura il nonno Tano, che risorge da una bara. Giunge l'uomo calvo in mutande che con un martello ricaccia il poveretto nella cassa, e insulta ancora tutti i protagonisti della pellicola. La collina è pervasa da una luce celestiale e popolata di gente vestita di bianco che balla e coglie fiorellini: è l'intero cast del film. Le cosche in guerra si combattono scherzosamente a colpi di fiori, ed ogni nuovo arrivo è salutato con felicità. In un angolo c'è posto persino per un palco dove far esibire i cantanti. Siamo inequivocabilemte in Paradiso. Tutti sono felici, allegri, pieni di amore: mafiosi e poveracci. I nani e lo Zio di Brooklyn, novelli San Pietro, accolgono ogni nuovo arrivato, tra cui il ritardatario Iachino, LoGiudice col Mago Zoras e madre al seguito, l'uomo dell'asino (che ormai si è innamorato dell'animale), il ciclista, Santo Polifemo. Anche il ciccione abbandona la sua fatiscente cantina. La musica continua festosa, si ride, si scherza, si balla. Sono tutti morti e chiaramente il film volge all'epilogo. Il presentatore che ci ha introdotto alla pellicola nel prologo vorrebbe chiudere con una frase che spieghi il senso dell'opera, ma non ricorda la battuta. Improvvisamente lo Zio di Brooklyn si avvicina alla telecamera: "Permettete che mi presenti? Io sono …". Una pernacchia lo apostrofa e lo blocca. "Grazie" risponde il vecchio, e il film finisce. L'effetto de "Lo Zio di Brooklyn" nel panorama cinematografico italiano è stato quello di un camion di immondizia rovesciatosi nel bel mezzo del prato verde e statico del nostro cinema: i fiorellini possono essere graziosi ma poco ci interessano; la spazzatura emana un fetore insopportabile e acido ma ci racconta e ricorda chi siamo, cosa facciamo, come viviamo, cosa mangiamo: ci rappresenta. Tutto in questo film è marcio e decomposto: gli scenari sono cadenti, le persone sono sporche e volgari, e spesso gli uni si confondono con gli altri (vedi i tizi in mutande, immobili tra le rovine: corpi fatiscenti che si confondono in luoghi fatiscenti). Non c'è spazio per la femminilità (ogni ruolo femminile è interpretato da maschi barbuti e orrendi), per la grazia o per la speranza. Solo dopo la morte è possibile recuperare la perduta felicità che il Sud una volta possedeva. Sebbene risulti altamente divertente e grottesca (e pure tanto), e sia farcita di scenette gustosissime, siamo di fronte ad un'opera tristissima e straziante, che osserva il degrado umano e urbano di un luogo della nostra penisola, senza retorica, portando anzi tale fatiscenza alle estreme conseguenze, verso l'inevitabile finale, liberatorio e terribile. Ciprì & Maresco riescono a sfuggire da ogni possibile luogo comune: il loro è infondo un film sui generis "di mafia", senza l'ombra di una pistola o morti ammazzati (anche se poi un senso opprimente di Morte aleggia incontrastato). La calzante metafora della lotta tra cani, che si ode ma non si vede, è segno tangibile di poetica cinematografica e di ricerca lessicale estranea alla quasi totalità del nostro cinema. La genialità de "Lo Zio Di Brooklyn" risiede inoltre nell'incredibile rigore applicato alla forma filmica: ogni scena è studiata nei minimi dettagli, ogni inquadratura sembra essere la migliore possibile, e in generale si tende a rappresentare le bruttezze nel modo più poetico possibile. A tale ricerca espressiva fornisce un grosso aiuto il bellissimo bianco e nero di Bigazzi (avrebbero senso i colori nell'universo descritto dal film?), e l'uso sapiente della citazione cinematografica (valga per tutte la scena del funerale tratta da un esperimento surrealista di René Clair). E' proprio per tale equilibrio tra cinema "alto" (la forma poetica) e "basso" (la volgarità); tra mezzo usato per la rappresentazione (la degradazione umana) e fine (uno sguardo al nostro Sud senza pianti, ma anzi cattivo e aggressivo); tra moderno (la scena dei cani: quasi horror) e antico (il recupero delle tradizioni); tra cinema puro (l'incredibile cura per i dettagli e l'immensa conoscenza del cinema degli autori) e televisione (le scenette prese in prestito dalla loro "Cinico TV"), che fanno della coppia terribile di registi palermitani una speranza per il nostro cinema, sempre più pieno di stupidi filmettini incolori, insapori, inodori. Meglio i film che puzzano: ci somigliano di più.


Consigliatissimo a tutti...



"Many things have an epoch, in which they are found at the same time in several places, just as violets appear on every side in spring." Wolfgang Boylai
I'am burning. . . burning cold . . .
25/03/2005 12:58
 
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Va il pensiero sull'ali dorate

Io sono uno che apprezza Ciprì e Maresco, fin da quando (bei tempi) i loro exploit cinofognari andavano in onda su Rai3, il cui direttore era il non mai troppo rimpianto Angelo Guglielmi.

Però non capisco proprio come si possa contrapporre "Lo zio di Brooklyn" a "Rosetta". E' come paragonare il gorgonzola con Jacopone da Todi, uno straccio da pavimento con Marlene Dietrich, Topo Gigio con un marziano. I termini di confronto non sono proponibili se non in termini di pensiero dissociato. O stracciato.
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