Sono andata a vederlo ieri...se ci penso mi ricommuovo quindi p meglio che non ci pensi...
io non sono solita emozionarmi ma questo pinocchio del futuro(magicamente interpretato dal 13enne Haley Joel Osment) mi ha proprio rubato il cuore...
Vi riporto la recensione di cinema.it
Regia: Steven Spielberg
Sceneggiatura: Brian Aldiss, Ian Watson, Steven Spielberg
Interpreti: Haley Joel Osment, Jude Law, Frances O’Connor, Brendan Gleeson
Durata: 146'
Paese: Usa
Anno: 2001
Montaggio: Michael Kahn
Distribuzione: Warner Bros.
La trama
Nel futuro, per risparmiare le scarse risorse, non si potrà avere più di un figlio: per questo la Cybertronics crea un bambino cibernetico che, grazie ad un imprinting artificiale, potrà amare i propri genitori come un vero figlio. Una giovane coppia, il cui unico figlio è in coma, nonostante le iniziali riluttanze accetta di sperimentare il prototipo, David. Tutto sembra andare per il meglio, finché il figlio umano esce dal coma e torna a casa: il conflitto tra i due bambini spinge i genitori a disfarsi di quello meccanico.
Recensione
La recensione di Giovanni Romani
Se il creatore si innamora della creatura
Cortese e compassato, uno Spielberg in cinemascope si scusa per non poter essere presente a Venezia e ci narra la genesi di A.I. – Artificial Intelligence, di come Stanley Kubrick si fosse innamorato del soggetto, tratto dal racconto “Supertoys last all summer long” di Brian Aldiss, e fosse deciso a produrne un film, affidandone la regìa allo stesso Spielberg perché “più nelle sue corde”, di come il suo maniacale perfezionismo lo abbia indotto ad attendere ulteriori sviluppi tecnologici per le riprese e di come la morte gli abbia impedito di vedere realizzato il suo progetto. E così Spielberg è rimasto solo al comando. Purtroppo, giacché lo spirito kubrickiano deve aver vegliato soltanto sulla prima parte di A.I., abbandonando poi il set in balìa dei consueti vizi spielberghiani.
Può l’uomo-demiurgo amare la propria creazione artificiale? È responsabile della sua felicità? Questa profonda questione etica, non nuova e nucleo fondamentale di Blade Runner, viene risollevata da Spielberg in chiave infantile ed artificiosamente correlata, non soltanto idealmente purtroppo, alle avventure di Pinocchio. L’incipit è straordinario, asciutto, essenziale ed emozionante nel descrivere con sintetica eleganza il surreale, innaturale rapporto tra una madre titubante ed il suo bambino artificiale, l’egoismo del dolore che esige sollievo, l’imprevedibile bisogno d’amore della macchina, il rifiuto, l’abbandono. Spielberg punta diritto al cuore narrativo, con ritmo privo di enfasi, con acuta sensibilità narra la promessa di un amore cibernetico, l’egoismo dell’uomo e la cieca fiducia della macchina, fino al corto circuito delle emozioni, al sovraccarico dei sentimenti.
Poi l’autore cambia marcia, imboccando la comoda strada della metafora, ripercorrendo in chiave grottesco-futuribile il racconto collodiano, con tanto di Mangiafuoco, Lucignolo-gigolò e Fata Turchina. La facile commozione prende il sopravvento: in un tripudio di lirismo poetico e filosofia new-age, banalità fantascientifiche e ricerca dell’effetto, il ritmo si sfilaccia, il racconto perde colpi, regredisce, diviene infantile, puerile, spielberghiano. Dimentico delle premesse adulte, Spielberg perde l’occasione di un finale dignitoso, creando un ulteriore, dannoso epilogo autocitazionista e consolatorio che spegne in un tramonto patinato la luce di un’alba di promesse non mantenute.
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